Buio. Scale, ripide, strane, sconosciute scale. Le salgo fino in cima, è un lungo viaggio. Arrivato mi fermo alla luce, non sono stanco, strano. Un amico mi saluta, non vedo chi è ma lo saluto di rimando. Lui inizia a scendere le scale che ho appena salito, mentre io mi affaccio: sono su un alto balcone, di sotto una folla di conigli rosa è disposta ordinatamente e alla mia vista inizia a scaldarsi e gioire. Non capisco. Mi giro e scopro che non è me che salutano, c’è un’altra persona affacciata al balcone, vestita elegantemente di bianco, che saluta la folla con autorità. “Chi sei?” gli chiedo, ma non mi risponde, non si volta nemmeno, e inizia in una lingua incomprensibile un discorso che i conigli prendono ad ascoltare, tornando in ordine e in silenzio. Non lo capisco, quindi torno giù, devo trovare l’amico che mi ha salutato prima. Scendo le scale in fretta, stavolta sono stanco, strano. Mi ritrovo col fiatone in mezzo alla folla di conigli rosa, temo di essere ostacolato ma nessuno mi nota e proseguo con facilità. D’un tratto raggiungo una fontana in mezzo alla piazza, non l’avevo notata dall’alto, e seduto sul bordo trovo chi stavo cercando, ora lo riconosco, è il mio migliore amico. Mi invita a sedermi con lo sguardo, quando nessun altro sembra in grado di vedermi. Mi siedo e gli chiedo: “Che ci fai qui? Dove siamo?”, mi fa cenno di no con la testa, come per dirmi che non ho bisogno di risposte, non ora. Non capisco cosa succede, i conigli tornano a fare confusione, poi vedo che è perché l’uomo vestito di bianco è sceso dall’alto balcone e ora marcia tra la folla, con una valigetta nera in mano. “Che significa? Dimmi qualcosa!” mi rivolgo ansioso al mio amico e lui, ancora in silenzio, si limita a muovere le labbra. Dal labiale colgo due parole “non posso”, ripetute sette volte. Poi si alza dal bordo della fontana e si erge di fronte a me, ancora con le labbra, senza un filo di voce mi comunica: “Io ero tuo amico” e poi “mi hai ucciso”. Non capisco, non è vero, io non ho ucciso nessuno! Non faccio in tempo a difendermi a parole che la sua testa improvvisamente si stacca dal corpo, come colpita dall’ascia di un boia, e rotola morta sul terreno, gli occhi ormai gelidi. Inizio a sudare, vorrei urlare ma mi manca la voce, vorrei scappare ma mi tremano le gambe. Intanto l’uomo vestito di bianco si avvicina, valigetta alla mano, e i conigli si fanno da parte al suo passaggio. Ma ora non è più solo, accanto a lui cammina una donna di bell’aspetto, capelli biondi, occhi azzurri e nasino all’insù… La conosco. Faccio per chiederle aiuto ma l’uomo in bianco, ormai di fronte a me con lei alla sua sinistra, inizia a parlare lo stesso strano idioma che parlava dal balcone. I conigli ascoltano in silenzio e tutti mi fissano immobili. La ragazza che conosco traduce per me: “Per aver ucciso il tuo migliore amico sei condannato alla pena di morte” conclude, e scoppia improvvisamente a piangere. Perché lo fa? In fondo, per me, non è mai stata veramente un’amica. Non ho tempo per riflettere, ci dev’essere stato un malinteso, non so come uscire da questa situazione, “condannato a morte”… Devo andare via! Mi giro per scappare oltre la fontana ma scopro che non è una fontana, non più. Ora è un patibolo. Mi giro di nuovo e l’uomo in bianco è a un metro da me, finalmente ha acquistato un volto, è lo stesso dell’amico che ho incontrato prima e della cui morte sono accusato. Ma adesso quel volto è tutto fuorché amichevole, i suoi occhi iniettati di sangue trasudano rabbia, vendetta. Anche i conigli urlano e sbavano, infervorati pretendono la mia morte. Soltanto la donna si limita a piangere a dirotto. Il sudore continua a sgorgare più freddo che mai dal mio corpo, il cuore mi batte sempre più veloce, le mie urla sono coperte dalla folla e dalla forte risata dell’uomo in bianco, che tira fuori dalla valigetta nera dei guanti scuri e un’ascia. Come faceva a tenere in quella piccola valigetta un’ascia così grande? Non ha senso… Devo scappare! Ci riprovo, ma scopro che delle catene mi bloccano. L’uomo col volto del mio migliore amico sembra assumersi il ruolo di boia, si infila i guanti, mi prende per i capelli e mi mette in ginocchio, immobilizzandomi a dovere. Non può essere davvero lui. Le mie urla si trasformano in un pianto disperato, che si unisce a quello della donna, le mie lacrime cadono frettolose bagnando una dopo l’altra il tessuto viola del cesto che dovrà contenere la mia testa. L’uomo si volta e prende l’enorme ascia precedentemente infissa nel legno del patibolo, la solleva da terra, poi verso l’alto, pronto a sferrare il colpo mortale. Nell’attimo di silenzio generale che precede l’esecuzione, l’attimo in cui tutti, i conigli, la donna, il boia stesso, prendono un ultimo respiro in attesa del gran finale, io trovo invece la forza di parlare, seppur con un filo di voce, leggero e tremante: “Ti prego… Perdonami” dico, guardando negli occhi il mio esecutore. Poi il suono dell’ascia nell’aria, e il buio.
Luce, è mattina. Mi alzo di scatto dal letto in cui dormo, sono tutto sudato, “un brutto sogno” penso, ma non ricordo niente. Scendo dal letto a due piazze e faccio il giro per arrivare alla finestra, la apro e chiudo le serrande. Di solito le chiudo sempre prima di andare a dormire. Ora è nuovamente buio e posso dormire un altro po’, in fondo stanotte non è che mi sia riposato poi tanto. Mi volto per tornare indietro e un sorriso compiaciuto mi attraversa il volto cacciando via ogni possibile senso di colpa. Dall’altra parte del letto riposa addormentata una donna di bell’aspetto, capelli biondi, occhi azzurri e nasino all’insù, da ormai due anni e mezzo la ragazza del mio migliore amico.